Flavio Roddolo se ne sta seduto sul cucuzzolo ai 550 metri delle sue colline tufacee, visibili nelle sfaccettature di marna rossa e sabbia da un oblò in cantina. Ti mostra tutto quanto c’è attorno con calma e pazienza, raccontando come sono cambiati paesaggio, persone e tutto quanto ruota intorno al vino di Langa. Ti pare strano trovarlo in mezzo a tante barrique (la più giovani di almeno decimo passaggio), ma nelle sue mani hanno un senso preciso e importante: per chi le sa utilizzare, sono un mezzo come un altro. Roddolo parla poco e solo quando serve, atteggiamento quasi incompresibile per quelli come me che non sputano mai.

A parlare sono i vini ed è sintomatico che i più famosi siano i Dolcetti, l’uva langarola più difficile, complicata e costosa da lavorare, quella che sicuramente dà anche le minori soddisfazioni economiche. Pare quasi troppo facile per Roddolo realizzare un grande Barolo come il Ravera, da una piccola vigna a  Monforte d’Alba, lui che il suo Barolo l’ha in casa con un Langhe Nebbiolo stupefacente per complessità, ricchezza, eleganza e capacità di occupare il palato. La mano di Flavio e il territorio si sentono nella Barbera (che non assaggia più perché troppo acida), nelle annate calde o caldissime, grandi o piccole che siano, per non parlare poi del Cabernet Sauvignon, nordico e altezzoso quanto basta, col nome di Bricco Appiani a ricordare orgogliosamente che qui è il terreno a comandare, mai il vitigno.